domenica 25 gennaio 2015

Intervista casalinga con Pino Forastiere


Erano anni che volevo fare un’intervista a Pino, ma per il fatto di essere sposati la cosa non marcava bene. Un giorno  però mi sono alzata pensando “ma anche un po’ chissenefrega”, perciò l’ho piazzato davanti  al microfono, e questo è quanto:  

S: Vorrei iniziare l’intervista parlando di musica. A volte mi è sembrato che il tuo virtuosismo strumentale finisse per prevalere sull’aspetto compositivo. O no?
P: Onestamente, non credo che sia così. Innanzi tutto, non sta a me definirmi virtuoso; e poi ho sempre cercato di usare la mia tecnica al servizio della musica. Il punto è che la fruizione della musica tende ad andare verso l’osservazione delle cose non ordinarie, delle bizzarrie…
direi che viviamo in un’epoca in cui la musica, più che ascoltata, è vista. Mi pare ovvio che se si guarda la musica, allora fa più piacere vedere una sorta di funambolo che articola tutte e due le mani in tastiera.  

S: E secondo te il momento d’oro della chitarra acustica dipende anche da questa predisposizione al funambolismo? 
P: Assolutamente si. Il normale trio chitarra-basso-batteria può essere riassunto in un unico strumento come la chitarra acustica, che riesce contemporaneamente a fare le percussioni con la cassa, le linee di basso con il cambio delle accordature, le melodie con il tapping, e, come non bastasse, su tutto questo  ci puoi anche cantare. Si tratta di qualcosa di altamente spettacolare, ma non saprei dire se colpisce di più la canzone o la sua esecuzione. La musica di per sé sarebbe un’arte uditiva, ma oggi bisogna fare i conti anche con la sua visualizzazione. Per quanto mi riguarda, ho sempre cercato di prediligere l’ascolto; che poi abbia anche cercato una serie di ‘trucchi’ tecnici per eseguire alcuni passaggi, per rendere lo strumento più polimetrico, poliritmico, dando  l’impressione che ci siano più linee che si muovono simultaneamente, beh… non ci trovo nulla di strano,  è una ricerca che è insita nella natura dello strumento, che è polifonico




S: Pensieri sulla ribalta virtuale di Youtube? 
P: Vorrei solo ribadire la mia assoluta incapacità di mettermi  in competizione. Teoricamente, se il mondo misura il valore delle cose partendo dai numeri, allora devo entrare anche io nell’agorà. E però, se il successo è numerico, allora il gattino della mia vicina di casa che fa miao miao e che nell’arco di quattro mesi arriva a 28 milioni di viste, vuol dire che da un lato è famoso, e contemporaneamente, con  questa tipologia di misurazione, è anche un grande artista




S: A proposito di internet e social network: tu di carattere sei una persona schiva, e anche molto silenziosa. Qual è il tuo rapporto con i fan, alla fine di tutto?
P: Io sono molto rispettoso di tutti coloro che ascoltano la mia musica. Sono una persona riservata, una ‘private person’ come direbbero gli americani, e questo fa parte del mio carattere, non mi sento a mio agio a condividere ogni azione della mia quotidianità con chiunque. Io ho la mia famiglia, i miei amici, e se mi voglio interfacciare in maniera privata, scelgo le persone con cui instaurare una discussione, un litigio, o una curiosità, per il semplice motivo che la vita è mia. Ciò che io realizzo con il mio lavoro, la mia musica, è un fatto pubblico, mentre tutto il resto è un fatto privato che al massimo può diventare un pettegolezzo. Non ho nessuna voglia di aprire facebook la mattina e dire al mondo che ho bevuto una tazza di caffè, non vedo perché dovrei condividere questa cosa con tutte le persone, anche sapendo che loro potrebbero esserne interessate. So di essere in assoluta antitesi con quello che dovrebbe essere e che è il modo di comunicare attuale, ma non ci riesco, e non lo voglio neanche fare. In realtà, la mia incapacità di condividere i miei fatti privati è anche un preciso atto politico.


S: Dopo tanti dischi solisti e la fortunata esperienza del trio di Guitar Republic, molto innovativa, che cosa rappresenta per te questo ultimo lavoro che sta per uscire, “Deconstruction”? Ho l’impressione che vada in tutt’altra direzione…  sei un pentito del tapping?
P: No, pentito mai. Io il tapping l’ho usato e lo uso quando serve. In questo momento della mia vita non mi serve, e quindi non lo uso. La decostruzione è un atto, un’azione. E la mia azione in questo momento è quella di pensare più allo spazio che c’è fra le note, piuttosto che alle note in sé per sé. Mi rendo conto che si allontana molto dal discorso che facevamo prima, perché se la chitarra fa tutte quelle cose che dicevamo (il basso, la batteria, la melodia), di spazio non ce n’è più. Se non ci sono note, ci sono colpi, se non ci sono colpi, ci sono bassi, se non ci sono bassi e colpi, c’è tapping… ecco questo assillo di quantità mi ha un po’ stancato, sto cercando di lavorare per riguadagnare proprio  quello spazio che non c’è più. In questo disco una nota è una nota, e un silenzio è un silenzio.



S: Ed è per questo che avresti voluto il download del disco solo per intero, senza tracce singole?
P: Si, avrei voluto, ma gli stores digitali sembra abbiano un problema con i concept album, e allora sono io che devo conformarmi alle esigenze del venditore. Spero comunque che la gente scarichi tutto l’album e si sforzi di seguire il ragionamento. So che è difficile chiedere l’attenzione per trenta minuti, però io sono una persona lenta, che ha bisogno  di capire, di pensare molto le cose, e questo lavoro rispecchia ciò che sono. E’ un disco breve, non credo che ascoltarlo dall’inizio alla fine sia uno sforzo insormontabile. Sono consapevole che la musica è diventata una sorta di sottofondo, ma io non sono d’accordo, e quindi il mio (secondo) atto politico è quello di cercare di riprendermi il mio ruolo di persona che dice una cosa dopo averci pensato, e che per questo esige di essere ascoltata, oppure di essere ignorata, ma certamente non di passare in sottofondo. 




S: Un ultima domanda te la voglio fare sull’Italia, quanto ti ha dato e quanto ti ha tolto?
P: Sto vivendo un momento particolarmente oscuro dell’Italia, dove ogni giorno che passa la paura attanaglia sempre di più le persone. E la paura è una cosa complicata da gestire, perché si reagisce in maniera strana, alle volte ci si chiude, alle volte ci si apre fin troppo, per reazione alla paura si risponde male, si diventa maleducati, ma è un atto difensivo.  E oggi l’Italia è un po’ questa cosa qui, un luogo dove, multinazionali permettendo, riusciamo ancora a mangiare le verdure colte nell’orto, dove il clima è buono, e dove le persone - come nella maggior parte del mondo - si stanno completamente rincoglionendo. Concordo abbastanza con il luogo comune che dice che l’Italia non va bene per lavorare, ma per vivere si. Quindi è una questione di priorità. Se uno vuole lavorare e basta, allora è meglio che se ne vada: non c’è niente da fare qui, lo dico senza cattiveria, è una constatazione oggettiva.  Se invece si pensa che è importante anche vivere, ed essere immensamente circondati dalla bellezza, allora si può rimanere. Questa è la terra di Dante, di Michelangelo, di Pasolini, è la terra che ha determinato i destini estetici dell’occidente.  Ma la cosiddetta modernità qui ha perso ogni controllo. Insomma, è un paese meravigliosamente confuso.

Nel nuovo disco Deconstruction, Pino Forastiere suona due Martin D28 vintage,  una Eko Chetro vintage, e una chitarra giocattolo. Usa corde D’Addario nickel, e il sistema di amplificazione Trance Audio System abbinato al magnetico Sunrise. Il microfono usato per la registrazione è un  AKG 480. A proposito delle sue chitarre, Pino continua a ignorare le misure del  manico, i decimillimetri che intercorrono tra le corde e la tastiera, e l’altezza esatta del ponticello, geniale adattamento del suo liutaio. Fino ad oggi, ha registrato 50 brani per chitarra acustica, in oltre 20 accordature diverse (che ricorda tutte, a differenza dei titoli dei brani che confonde spesso).  

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